domenica 9 settembre 2018

The Congress: quando la popolarità diventa difficile da gestire




Quando hai visto “The Congress”, film del 2013 di Ari Folman e trasposizione del romanzo “Il Congresso di Futurologia” del 1973 di Stanislaw Lem, eri speranzoso di aver tra le mani l’ennesimo film rompicapo su viaggi temporali, paradossi e universi alternativi. 

La tua speranza è rimasta inattesa ma devi dire che comunque ti è capitato un gran film con idee magari non originalissime ma ben sfruttate e un concept di fondo accattivante. E tante lacrime a voler essere persone sensibili. 


In breve si tratta della vita di Robin Wright – che è anche il nome dell’attrice che interpreta la protagonista – dal successo tale che aveva il mondo ai suoi piedi quando era ventenne, fino ad una serie di scelte sbagliate sia professionali – rinuncia di ruoli, capricci sul set – che personali – uomini sbagliati con cui ha comunque avuto due figli da lei amatissimi - ; all’età di 44 anni non le resta che accettare la proposta della Miramount, casa di produzione che le propone di trasferire i propri dati per diventare una specie di attrice digitale a comando e rinunciare al contempo a recitare per sempre. 

Questo detto in due parole perché in mezzo a questa trama linearissima il film innesta una profondità notevole andando, tramite la vicenda di Robin, a toccare temi delicatissimi quali il libero arbitrio, gli amori familiari, la scelta tra una finzione piacevole oppure una realtà crudele. 

Il film si divide sostanzialmente in tre parti, facilmente riconoscibili in quanto caratterizzate da utilizzo di tecniche differenti. 

La prima parte, con attori in carne ed ossa, dura 45 minuti ed è tutta dedicata all’illustrazione della vita di Robin 44 enne, della sua situazione familiare, del suo rapporto conflittuale con la Miramount ed il tentativo di mediare del suo agente. Fino alla scelta di addivenire alla proposta della casa di produzione: trasferire “se stessa” digitalmente, diventare di proprietà della Miramount e sparire dalle scene. A dir poco strappalacrime la scena finale di questo arco, con il manager di una vita che trova il coraggio di confessare i suoi veri sentimenti a Robin mentre lei è sottoposta al trasferimento. 

Quello che si apre poi lascia a dir poco sconcertati: il film passa infatti a diventare un’animazione in rotoscopio e la normale regia viene utilizzata per filmati ed interviste su schermo. 20 anni dopo si vede Robin accedere al Hotel Miramount presso Abrahama, città in cui si entra drogandosi ma – così dice la guardia – non si esce se non morendo. Connotata da colori vividi e splendidi, nel frattempo la Robin versione Miramount è diventata un’eroina della televisione impersonando RRR – Robin Rob Ribelle -. In questo nuovo “mondo” sono stati trasferiti anche alcuni colleghi piuttosto famosi che vengono disegnati in maniera caricaturale: si possono infatti vedere – e ne stai sicuramente dimenticando qualcuno – Tom Cruise, Grace Jones, Micheal Jackson – nelle insolite vesti di cameriere –, Marilyn Monroe e, vagamente, la scena della fuga dal Hotel non può non ricordare James Bond. 

Quello che piace è la legge che governa questo nuovo mondo. In sostanza la Miramount Nagasaki è riuscita a codificare chimicamente tutto quando riguarda l’essere umano, compresa la formula del libero arbitrio. Da questo mondo sono così scomparse invidie, guerre, conflitti e ognuno sparge le proprie sensazioni in forma di ferormoni che sono avvertiti dagli altri e tradotti in proiezioni mentali - New York, per dirne una, è diventata un immenso giardino in cui convivono più razze diverse, centauri inclusi -. Il Mondo in sé non è altro che una rappresentazione della propria mente con la quale si può fare tutto, essere tutto, è solo questione di sensazioni; in più si è pressochè “eterni” e la normale routine notte/giorno e persino i calendari perdono di valore. Resta invece piuttosto sibillina la frase secondo cui la figlia di Robin, Sara, è una delle poche ad aver conservato la facoltà di fare figli: apparentemente dunque, la droga che viene iniettata – si capirà meglio più avanti - , comporta questo tipo di conseguenza. 

Anche in questo ambiente etereo e privo di limiti alle possibilità umane, Robin vive un suo dramma. Viene infatti creduta pazza ed ibernata per 20 anni; tuttavia al suo risveglio trova ad attenderla il suo regista – che la ama ed è ricambiato – ed inizia ad andare in cerca dei propri figli. Ed è proprio la volontà di di ritrovare suo figlio minore che ci permette di capire come stiano le cose veramente e ci introduce al finale del film. 



La rivelazione finale – non difficile comunque da desumere – è di Matrixiana memoria: il mondo reale è distrutto e tutte le persone che si trovano in quello “rotoscopico” sono in realtà sulla superficie del pianeta in condizioni pietose e completamente fermi in quanto assoggettati ad una droga che li proietta in quel mondo tutto luci e colori, lustrini e pajettes. Si può tornare al mondo "reale" con un iniezione oppure con una pillola; in esso si trovano solo coloro che hanno rinunciato alla droga oppure quelli che il mondo lo governano da dei dirigibili con pratico simbolo Paramount. Robin intraprende questo viaggio per poter ritrovare il figlioletto grazie ad una pillola offertagli dall’innamorato solo per scoprire che le sue condizioni erano peggiorate ed era praticamente divenuto cieco; dopo aver aspettato per anni aveva deciso a sua volta di recarsi nel mondo rotoscopico e così farà anche la protagonista. 

Il finale, dolce amaro, vede Robin ricongiungersi col figlio che nel mondo virtuale è divenuto un aviatore: il dolce sorriso disilluso del figlio nell’ultima inquadratura lascia il cuore dello spettatore pregno di sentimenti contrastanti tra gioia per la ricongiunzione, sofferenza per la vicenda della protagonista e malinconia per la scoperta della verità. 



Ti aspettavi un film in cui il tuo cervello sarebbe stato messo alla prova e ti sei ritrovato invece con una pellicola della durata di 122 minuti che ha fatto palpitare il cuore grazie alla forte abilità di empatizzare con la situazione della protagonista; accanto a questo, la sorpresa del mix tra “film reale”, fatto di attori in carne ed ossa per rappresentare il “mondo reale” e animazione in rotoscopio per il “mondo fasullo” indotto dalla droga. Raccomandato e visibile senza necessità di prendere alcuna droga qui.

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